07
Ott
10

“Potter, Momsen & The Tressettes”: e mò avemo proprio fatto scopa.

Non è vero che in questo blog parliamo solo di fighe. Parliamo anche di fighe che ce la sanno. Proprio come nel caso di Grace Potter e Taylor Momsen, due sgnoccolone notevoli di cui ci occuperemo senza indugio con il collega Daniel Day Cavanagh nelle righe che seguiranno. Figurati se non lo facevamo noi. E chi sennò? I fratelli Tavernello? Tsè.

James says… No, ve lo devo dire. Sapete cos’ho pensato la prima volta che ho ascoltato cantare Grace Potter? Bè, immaginatevi un appartamento in riva al mare, e una stanza da letto con la luce del sole al tramonto che filtra dalla persiana abbassata a metà; poi immaginatevi miss Potter che mentre canta qualcosa del genere, fra una strofa e l’altra vi chiede di sodomizzarla ma con delicatezza. Romantico vero? Di meglio c’è solo la caccia allo sparviero di montagna armati di palline di carta umide e una Bic per sputarle. Forse. Eppure non sono io il maniaco. E’ il suo timbro vocale che provoca, giuro. La signorina Potter è nel giro già da un po’ a quanto pare, e se arrivi a condividere il palco con gente come Black Crowes, Gov’t Mule, Joe “bellicapelli” Satriani e tutto il cucuzzaro significa che qualcosa forse forse la sai fare. E’ vero, la copertina di questo terzo parto in studio è l’emblema dell’equazione “pelo pubico esposto=più dischi venduti=villa di lusso con filippina e Lamborghini annessi”, ma quella che ad un occhio distratto potrebbe sembrare come l’ennesima passera scopaiola con ben poche qualità tecniche al di fuori della stanza da letto, in realtà è una signora cantantessa con du palle così sotto. Possino cecamme se dico boiate. Il corredo soul e rock settantiano che la signorina Potter si porta dietro è sempre fieramente esposto, così come anche le sue cosce meravigliosamente tornite onnipresenti in ogni suo videoclip per la gioia dei nostri occhi; ma questo è un altro discorso, come direbbe il buon Lucarelli. Si respira aria di seventies ascoltando questo disco. Ma parecchia. E questo è un bene, perché pezzi come ‘Paris’, ‘Medicine’, ‘Tiny Light’, ‘Only Love’ o l’ottimo uno-due ‘That Phone’/‘Hot Summer Nights’ hanno un groove tutto di quegli anni che ormai raramente si respira. La sezione strumentale c’è; magari non fa quadrupli salti mortali con avvitamenti vari e atterraggio di culo su una bottiglia di Wild Turkey, ma è ben presente e ricrea egregiamente il feeling di quegli anni; il merito di ciò va sia all’abile Scott Tournet alla chitarra -personaggio dal discutibile taglio di capelli ma che ci sta simpatico lo stesso-, sia al vigoroso Matt Burr alla batteria che è sputato al Dennis Hopper di Easy Rider, ma soprattutto il merito va al colonnello Potter che in sala prove impartisce disposizioni con polso di ferro, e che impreziosisce il tutto con un risolutivo Hammond di altri tempi che è sempre un piacere ascoltare. La voce manco a dirlo c’è anche lei. Grace ha un timbro vocale del porcoddue (mi si perdoni l’eufemismo), sensuale come una centralinista delle hot-line quando vuole, e aggressiva come la nonna zoppa dell’immensa Aretha Franklin quando serve. Una voce che sprizza sensualità ed energia ad ogni nota, qualità peculiare di gente come Tina Turner, Ella Fitzgerald, Julie London o Diana Krall, giusto per capirsi. Devo ancora incenerire il mio ultimo paio di mutande ormai inutilizzabile sin dall’ultima volta che ascoltai la seconda metà di ‘Tiny Lights’. I pezzi funzionano, c’è poco da fare. Certo, la miscela della Potter non offre niente di veramente nuovo dato che le sue influenze principali raggiunsero il loro apice circa trenta/quaranta anni fa, ma la sapienza di chi è coinvolto in questo progetto fa si che tutto risulti fresco e assolutamente di qualità, compito molto arduo dato il genere proposto. Questo disco omonimo potrebbe benissimo dominare indiscusso nel regno dei dischi che dominano indiscussi se non fosse per qualche alone che ne intacca l’armonia, come qualche pezzo un po’ più debole degli altri, diciamo riempitivo, o come qualche passaggio forse non molto azzeccato; ma siamo nell’ordine di due su tredici e comunque neanche da buttare completamente via. Ma ancor più probabilmente fa tutto parte di un disegno molto più grande che solo i Massoni, Milly D’Abbraccio e Roberto Giacobbo possono conoscere ed eventualmente spiegarci. Se gli va. Insomma, cagate a parte Grace Potter e i suoi “Crisantemios” hanno dimostrato di saperci fare un bel po’, e se si continua così ne vedremo delle belle. Se no giuro che divento francescano scalzo.

Citazione che ce la sa: “If I was a man I’d make my move. If I was a blade I’d shave you smooth. If I was a judge I’d break the law. And if I was from Paris… If I was from Paris I would go: oh-la-la-la-la-la-la”

 

 

Daniel says… Alle volte basta un “viva la figa!“. Ben assestato. Quando uno proprio non se lo aspetta. Ecco, la mia storia d’amore con i The Pretty Reckless è iniziata così, saltellando su youtube alla ricerca di un singolo che potesse ravvivare un’uggiosa giornata di inizio autunno. E poi è arrivata lei, Taylor Momsen, anni 17 (per la maggiore età aspettiamo fiduciosi il prossimo 26 Luglio), che mi è apparsa in video con una roba così. Rullo di tamburi…

Non ci vuole una Mara Maionchi o un Desmond Child qualsiasi per capire al volo un paio di cosette, senza nemmeno sforzarsi di ascoltare tutto il cd (del quale vi parlerò in seguito, promesso). Primo: ma l’avete vista, tra teschi e reggicalze, quant’è a suo agio la Momsen davanti alla telecamera? La storia narra che la piccola Taylor, a 3 anni, aveva già debuttato in uno spot pubblicitario della Kraft, per poi apparire in film e serie televisive anche di una certa rilevanza. Siccome cago il cazzo, vi dico che me la ricordo bene solo in ‘Paranoid Park’ di Gus Van Sant, mentre Gossip Girl non voglio nemmeno sapere cos’è. Secondo: sì, la nostra gioca a fare la zozzona, e il fatto che sia ancora minorenne la agevola un pochetto. Il trinomio rock, fica e trasgressione non è affatto nuovo, e visto che parliamo di rock palesemente influenzato dall’attuale post-grunge, è impossibile non rivolgere un pensierino affettuoso alla vedova più famosa della storia del rock. Che pure lei, tra un tribunale e l’altro, si è dilettata col cinema. E con risultati notevoli, perlomeno quando a dirigerla c’era il Milos Forman di ‘Man on the Moon’ e ‘Larry Flynt – oltre lo scandalo’. Bastasse la prima impressione, sarebbe lecito accostare la Momsen a una Courtney Love dei giorni nostri, senza cadavere a carico (diamole tempo). Impressione corroborata dall’ascolto di ‘Light Me Up’, primo studio-album a nome The Pretty Reckless. La puzza di bufala colossale lascia subito il posto all’uno-due iniziale che non ti aspetti: ‘My Medicine’ e ‘Since You’re Gone’ sono infatti due pezzi stranamente groovy e carichi di dissonanze modern-rock, e se non è proprio l’ultima cosa che pensi di ascoltare nel disco d’esordio di una diciassettenne, poco ci manca. Forse la biondina non è una diciassettenne qualunque. Anche perché alla domanda “cara Taylor, oltre alla voce e alla bella faccia, cosa c’è di tuo in questo dischetto?” lei potrebbe rispondere sventolando i credits del disco, che citano lei come autrice di tutti i brani, assieme al chitarrista Ben Phillips e al produttore Kato Khandwala, uno che negli ultimi anni ha avuto per le mani i lavori di Breaking Benjamin, Drowning Pool e Paramore. Almeno sulla carta, le irriverenti lyrics sono farina del sacco della Momsen, mentre gli arrangiamenti e la splendida resa di pezzi come i due singoli ‘Miss Nothing’ e ‘Make Me Wanna Die’ ci obbliga ad annotare l’indirizzo del signor Khandwala sul taccuino della gente che un giorno conterà qualcosa. Nel frattempo ci godiamo per intero l’ascolto di ‘Light Me Up’, che dopo l’accattivante title-track e il light-metal lussurioso di ‘Goin’ Down’, chiude in sordina con un bel lento (‘You’) e un paio di pezzi messì lì giusto perché bisognava arrivare a quota dieci. Ed è inutile che sbuffate. Gli Iron Maiden coi riempitivi ci campano da quasi dieci anni, e nessuno dice niente. Vigliacchi. Certo, la nostra Taylor deve ancora farne di strada per arrivare ai livelli di, che ne so, una Juliette Lewis. Però la ragazza ha dalla sua l’età e un talento cristallino. Aspettiamo fiduciosi, rigorosamente al grido di “viva la figa!”. Il resto è noia.

Citazione che ce la sa: “Hey there, Father, I don’t wanna bother you but I’ve got a sin to confess. I’m just 16 if you know what I mean. Do you mind if I take off my dress?”

27
Set
10

“Le Pop”: quando Yann Tiersen incontra la Banda Osiris. Però con la patata.

James says… Favolose. Incantevolmente eccentriche. Praticamente perfette. Queste quattro norvegesi hanno conquistato il mio cuore, non riesco a negarlo. Così irresistibilmente folli, nonché polivalenti e abilissime compositrici, quasi come se nella loro vita non avessero fatto nient’altro. Detentrici di un’ecletticità compositiva davvero fuori dal comune che abbraccia un numero smisurato di influenze musicali diverse, dalla musica folk al ragtime, dal blues al pop, facendoci assaporare atmosfere provenienti dall’est europeo così come dalla Francia, passando per gli Stati Uniti e per le loro terre d’origine. Un tripudio di suoni e colori variopinti mai caotico però, che oltre a traghettarci con disinvoltura attraverso molteplici stati d’animo, mette anche in risalto la dimestichezza che le nostre eroine hanno con l’ampia rosa di strumenti musicali a loro disposizione, e che si scambiano a vicenda durante le varie canzoni (provate a fare un giro qua per farvi un’idea). Una sorta di incrocio splendidamente riuscito fra Yann Tiersen, la Banda Osiris e la banda di paese. Ma con la patata al posto del pisello. Tante, ma davvero tante, sono le idee infilate in questo disco, e la forza delle Katzenjammer sta proprio in questo, ovvero nel non essere legate a nessun genere in particolare, spaziando in assoluta libertà e cercando di estrapolare il meglio da tutte le loro influenze. Venghino siòri venghino, c’è spazio proprio per tutti nel circo ‘Le Pop’: come già anticipato si va dal mai troppo desueto ragtime di ‘Demon Kitty Rag’, al polveroso blues di ‘Ain’t No Thing’, da ‘Virginia Clemm’ -uno dei pezzi più struggenti che i miei padiglioni auricolari abbiano mai ascoltato in tutti questi decenni di carriera musicofila-, alle marce funeree con annessi richiami operistici di ‘Der Kapitan’, più tutto il folk europeo che vi viene in mente e ovviamente gli immancabili passaggi pop ma mai troppo spregiudicati (vedi ‘Tea With Cinnamon’); mentre se volete un assaggio di cosa ha convinto il tribunale di Oslo a far internare le nostre nella clinica psichiatrica ‘San Burzum da Bergen’ provate ad ascoltare la canzone che dà il titolo al disco. Sembra una lista della spesa vero? E invece è solo parte di quanto si può trovare dentro ‘Le Pop’. L’estro è alle stelle e le nostre orecchie ringraziano. Se dopo essermi praticamente sbrodolato tessendo le lodi di queste quattro signorine nordiche ancora non avete capito bene che tipo di musica suonano, innanzitutto vi invito a visionare i video a fondo articolo e di ascoltare tutto ciò che di legale trovate su internet (non venitemi a dire poi che i Metallica vi hanno fatto causa per colpa nostra), dopodiché una volta aver finalmente preso coscienza che questo è il gruppo musicale definitivo in the world che tutta la Repubblica Galattica ci invidia, vi potete tranquillamente scapicollare giù dalle scale del vostro condominio per fiondarvi nel vostro negozio di cd di fiducia a comprare sto benedetto album. Anche se il vero spettacolo le nostre malate di mente preferite lo danno in sede live sui vari palchi che le ospitano, ma l’acquisto è obbligato lo stesso. Senza che fate tanto i furbi.

http://www.myspace.com/katzenjammerne

13
Set
10

“Sigh No More”: hey mà, stirami il gilet!

James says… Vi risparmio tutto l’incipit che avevo in mente durante il quale sbrodolavo lodi nei confronti dei Mumford & Sons. Vi dico solo che -stando con i piedi ben per terra- questi quattro inglesotti per me sono stati un’illuminazione, un po’ come quando vai all’Ikea di Traversetolo e ti trovi davanti l’ultimo modello di portavasi Skörd. Ecco, l’esempio è perfetto. Passi tutta la giornata fra gli scaffali che contengono trilioni di puttanate girando a vuoto come fanno i turisti giapponesi al Colosseo, ma poi quasi per sbaglio capiti davanti all’oggetto che ti cambierà per sempre la vita. Bè, più o meno. Musicalmente parlando il loro è una sorta di ponte virtuale fra l’irish folk e quello a stelle e strisce, il tutto ammodernato con una buona dose di indie rock e una ricercatezza di base che rende la loro proposta un pelo diversa da quanto si può ascoltare in giro. Perché scavando un po’ nella palta se ne trovano di gruppi folk similari, volendo provenienti anch’essi dalla terra albionica, ma i nostri c’hanno la marcia in più. Sarà la voce rauca ma intonatissima e malleabile del buon Marcus Mumford, saranno i cori di accompagnamento impregnati di pathos esattamente quanto basta per inumidire l’occhietto, saranno le smandolinate furiose di Winston Marshall o le agrodolci e mai banali melodie che sti quattro tirano fuori con la stessa semplicità di come si tira fuori una caccola dal naso fermi al semaforo; sarà l’effetto serra, saranno le poppe di Emanuela Folliero, sarà Roberto Giacobbo che non c’ha mai capito un casso, sarà quello che volete, ma si sente proprio che i nostri sono a loro agio nello scrivere canzoni e nel miscelare gli ingredienti che le compongono. I pezzi risultano sempre freschi e ognuno ha una sua caratteristica particolare, così come notevoli sono le atmosfere più soffuse e riflessive che i nostri tratteggiano con una naturalezza disarmante. I testi per giunta non potevano che essere intimisti e poco scontati; si parla di vita, di sentimenti ricambiati o meno, di gioie e di rimpianti, di storie di tutti i giorni e di storie un po’ fuori dall’ordinario, e lo si fa sempre come se fosse un vecchio amico a parlarci. Quando ho ascoltato questo disco la prima volta ho chiuso gli occhi e m’è subito sembrato di essere in una birreria di Londra durante una giornata di pioggia, mentre sorseggiavo una pinta di bionda e osservavo attraverso i vetri appannati la gente che si lasciava trasportare dalle proprie vite, o che semplicemente affrettava il passo in cerca di un riparo. Poi ho aperto gli occhi e mi sono reso conto di abitare in un paesino di cinquemila anime ai confini fra Calabria e Basilicata, e quel giorno lì faceva pure un caldo boia. Bè, devo ammettere che l’effetto trasporto gli è perfettamente riuscito. Mi sa che alla fine anche senza l’incipit ho sbrodolato lo stesso. Ma i Mumford e Figli se lo meritano tutto, provare per credere. E poi nella musica non bisognerebbe concentrarsi sull’aspetto esteriore dei musicanti, ma i gilet e l’abbigliamento campagnolo che indossano con becera fierezza nonostante l’orda di emo alle porte delle case discografiche di tutto il mondo gli fa guadagnare una bella manciata di punti extra. Io ho appena ordinato su eBay un gilet color sporco e una camicia da boscaiolo con le toppe sui gomiti. Il pantalone che usava mio nonno per andare in campagna lo faccio mordere al cane e sono a posto. Grandi.

www.myspace.com/mumfordandsons

26
Mag
10

Welcome to Topaland #1: Lorraine Lewis

James says… L’avete fatto vero? Qualcuno o qualcuna di voi ha storto il naso leggendo il titolo della rubrica. Bè, effettivamente il messaggio che ne esce fuori forse non rende pienamente giustizia alla figura femminile, ma se questo tipo di discorsi dovesse in qualche modo turbare la vostra sensibilità vi faccio parlare con mio cuggino che c’ha un amico della sorella del cognato che conosce una tipa che porta i caffè a un’altra tipa di un’associazione femminista di Scasazza. Scherzi a parte non vogliamo offendere nessuno, noi voliamo decisamente più bassi. E certamente questo articolo sarà il primo di una lunga serie. Non lunga come Lost però, che ci tengono lì per sei lunghi anni e poi alla fine si scopre che Jacob, Hugo e Jack in realtà sono…mmm vabè, ma mi sa che il finale ve lo racconto dopo dai. Come tutti noi ben sappiamo il metal fortunatamente non è un genere soltanto al maschile. Ringraziando qualche divinità nordica a caso, intorno agli anni ottanta qualche discografico capì che forse si poteva anche smetterla con la sagra della fava nel rock duro, dando più spazio alla gnagna così come era già prassi comune negli altri generi musicali. E cavolo se ha funzionato. Tant’è che ora il ‘female fronted metal’ -come dicono i ‘giornalisti’ che ce la sanno e le case discografiche che ce la sanno ancora di più- fa quasi più mercato del porno. Di sicuro una figura importante di questa ‘corrente’, se vogliamo chiamarla così, è stata la signorina di cui mi appresto a parlare nelle righe che seguiranno. Mi riferisco a quel bel carico a bastoni che risponde al nome di Lorraine Lewis. Chi?! Come chi? Lorraine Lewis! La passerona riccia che ha fatto il videoclippe dove si batteva il tempo sulla chiappa. Ahhh! Già, quella! (gli smemorati vedano il primo video a fondo articolo, please…) Un signor donnino che ha sconfinferato il popparuolo di parecchi adolescenti degli Eighties e non solo a suon di minigonne inguinali e prosperosi seni pericolosamente agitati durante le sue molteplici performances metalliche, roba che neanche alla mensa del porto di Genova si sarebbero mai immaginati. La nostra Lita Ford-wannabe si affacciò con prepotenza sulla scena cotonata degli anni ottanta -e soprattutto negli abitacoli dei camionisti di Palm Beach Sud- cavalcando ovviamente lo stile California che tanto andava di moda in quel periodo, ottenendo un discreto successo coi singoloni ‘Falling In And Out Of Love’ e ‘Waiting For The Big One’ targati Femme Fatale, più che altro per merito dei loro videoclip che, assieme a tutta l’iconografia sobria che accompagnava i nostri, mettevano in risalto le indiscutibili capacità tecniche e professionali della nostra Lorraine (l’iconografia e le grandi capacità); due pezzacci questi ultimi talmente incendiari che furono subito utilizzati a rotazione per lo spot di “Mario er porchettaro de Trastevere” che dall’88 all’89 andò in onda su TeleRomaCapoccia se non ricordo male. Fu esattamente da questo momento in poi che si posero le solide basi di una prosperosa e duratura carriera, tant’è che già dall’anno successivo iniziarono i problemi all’interno della band: mentre Lorraine, sempre attenta al sociale e ai problemi di erezione di molti californiani, voleva tentare il grande salto mostrando qualche mappata di suoi peli pubici in più, gli altri membri della band invece volevano indurire ulteriormente la loro musica dato che all’indurimento del loro gingillo ci pensava già la Lewis. E così, non riuscendo a trovare il punto d’incontro, dopo il tour britannico dell’89 che portò tanta allegria anche agli inglesi, i nostri Femme Fatale si sciolsero come sugna al sole. Ma appresa la notizia il sindacato dei camionisti di Palm Beach subito insorse, protestando sotto casa della Lewis con dei cartelli del tipo “Aridatece la gnagna” e “Abbasso il re! Viva la sorca!”. E così la Lewis, ricordiamo sempre molto attenta al sociale, commossa da cotanto ardore e disperazione decise di fare qualcosa (purtroppo solo a livello musicale) con altre due gnocche di caratura notevole, ovvero miss Roxy ‘Vixen’ Petrucci e miss Gina ‘Poison Dollys’ Stile. Ma l’operazione “Gnagna Rebirth” era troppo bella per essere vera, e così anche questo progetto ben presto si sciolse come altra sugna al sole. Quanta sugna sprecata diobò. Però l’amicizia fra la Lewis e la batteraia delle Vixen rimase comunque intatta, tant’è che attualmente le nostre due tope portano avanti il progettino Roktopuss (nomen omen diceva qualche vecchio ubriaco), assolutamente indispensabile per lo scenario musicale mondiale così come lo è l’ultimo modello di appendiabiti della Foppapedretti per la salvaguardia del totano d’acqua dolce. Parallelamente la nostra eroina porta avanti anche una sua carriera solista dopo che un suo ennesimo e inutile progetto musicale messo su col misconosciuto marito Eric Levy (bassista degli altrettanto misconosciuti Blackeyed Susan) è naufragato in malo modo; una carriera solista la sua che per restare coerentemente in tema con quanto fatto in passato si muove su territori country/pop, e che le ha permesso di registrare così lo stesso numero di copie vendute che ha fatto l’ultimo best of di Gianni Celeste nei negozi di Castelfranco Veneto. Comunque sia la nostra Lorraine s’è conservata davvero alla grande, e a tutt’oggi resta uno stacco di donna davvero di livello, ovviamente sobria e posata come sempre e ovviamente per questo, e per tante altre cose ci ha permesso di fare in bagno in tutti questi anni di onorata carriera non finiremo mai di renderle grazie. Lunga vita alla nostra Lorraine che aspettava quello grosso!

14
Mag
10

Un Prophète: oui, nous pouvons!

Daniel says… Allora si può. Per davvero.

E’ possibile fare un prison-movie credibile e godibile senza cadere nei cliché telefilmici tanto cari a ‘Prison Break’. Vi dirò di più: si può fare un film di gangster senza le faccette di Johnny Depp o la regia pirotecnica di qualche vecchio trombone d’oltreoceano. Ma no che non sto scherzando. Mettiamo quindi che il vostro dvd de ‘I Soliti Sospetti‘ abbia un rapporto non protetto con la vhs cartonata di ‘Bad Boys‘ (quello dell’83 con Sean Penn): ecco, quello che ne verrebbe fuori non potrà comunque raggiungere gli apici toccati da ‘Un Prophète‘ del francese Jacques Audiard (‘Tutti i battiti del mio cuore’), il film che ha stregato Cannes, Hollywood e quei pochi, troppo pochi, che si sono presi la briga di vederlo al cinema.
L’inizio è a bruciapelo: il giovane Malik, 19 anni, entra nel carcere di Brécourt dove trascorrerà sei anni di detenzione per non si sa che cosa. Quello che si capisce al volo è che Malik c’ha quasi più rogna di tutta New Orleans: è arabo, solo come un cane, non sa né leggere né scrivere, non ha il becco di un quattrino e l’avvocato già è tanto se gli rivolge la parola. Come insegnano in ogni scuola pubblica che si rispetti, in prigione difficilmente la passi liscia se non hai qualcuno che ti guarda le spalle, e Malick questo lo scopre sulla propria pelle appena varcata la soglia del carcere di Brécourt. Siamo praticamente nella prima mezz’ora di un film che passa abbondantemente le due ore, e già ce ne sarebbe abbastanza per gridare al piccolo miracolo. Miracolo soprattutto registico, perché Audiard riesce a dipingere uno scenario carcerario più che plausibile, rappresentandolo con il rigore di chi vuole solamente raccontare una storia, una brutta storia, come direbbe il buon Lucarelli. Non c’è spazio né per le lezioncine morali dell’ultimo Ridley Scott, né per l’indulgenza di un cinema, a suo malgrado, ancora imbavagliato da troppa retorica politicamente corretta. Quello che parte come il più tipico dei drammi carcerari si trasforma così, col passare dei minuti, in un racconto in costante divenire, dove il riscatto è costruito non sul recupero della morale ma sull’imposizione violenta del potere criminale. In tutto questo emerge la crescita del giovane Malik El Djebena, da pulcino analfabeta a “profeta” poliglotta. A interpretarlo è il portentoso Tahar Rahim, affiancato da una vecchia gloria del cinema francofono come Niels Arestrup e da un nutrito gruppo di facce sconosciute ma dure come il granito. Non so voi, ma è davanti a film come questi che rivaluto, in buona parte, il contributo che può arrivare da un Di Caprio e da un redivivo De Niro. In un cinema sempre più a misura di star, fare la differenza è diventato un lavoro per pochi. Uno sporco lavoro. Ci siamo capiti, Jacques…

30
Apr
10

Bangkok Adrenaline: applausi, lacrime, buio.

James says… Voglio essere chiaro, non è che ci sia molto da dire su questo film. Cinematograficamente parlando è un mezzo aborto: regia assente, attori che a chiamarli tali ti senti un verme nei confronti degli attori veri, una sceneggiatura che mio nipote di 6 anni sarebbe stato capace di scrivere in cinque/dieci minuti rendendola molto più interessante, e dei personaggi che escono fuori dritti dritti dalla sagra dell’ovvio. Trama: quattro ragazzotti (tre pardon, uno è un armadio a otto ante con comodino e lampada annessi) in visita turistica a Bangkok perdono un sacco di soldi al tavolo verde e si riempiono di debiti col proprietario del casinò, che sembra un Giancarlo Magalli in versione asiatica. Magalli gli da una settimana di tempo per recuperare il denaro altrimenti le loro teste finiranno come ornamento per i saloni di qualche villa di lusso del circondario. Ed ecco arriva la genialata: dato che in una settimana è impossibile anche per Tremonti raggranellare l’equivalente del Pil del Lussemburgo, i nostri pensano bene di rapire la figlia di un milionario che ben presto si rivelerà un bello stronzo, per poi chiedergli un riscatto e saldare finalmente il debito. Applausi, lacrime, buio. Fin qui si potrebbero già contare una decina di ‘machecazzo’; se poi mi soffermo a parlare della ‘recitazione degli attori’, delle simpaticissimissime battute e scenette piazzate qua e là utili come uno scopino del cesso senza spatole, e di qualche altro pittoresco personaggio/avversario accessorio, si arriva a contarne 120/150 più o meno. Se poi parlo anche del combattimento in corsa sul motocarro che sfida ogni legge di gravità conosciuta dall’uomo, e di quanto sia scemo e inutile “l’amico” francese di John il rasta e il suo commando di inetti allora si perde proprio il conto. Insomma faccio prima a dirvi cosa vale di questo film. Ben poco. Qualche coreografia dei comunque preparati Daniel O’Neill e comitiva, una Priya Suandokemai che ha un suo perché (e ovviamente non sto parlando delle sue doti da attrice), la Pontiac GTO classe ’67 dell’ex-scagnozzo del milionario e poco altro. Insomma, leggendo questa recensione avete perso il vostro tempo, ma se guarderete il film sarà ancora peggio. Se siete abituati alle ciofeche e avete un filo di masochismo che vi scorre nelle vene, allora guardatelo pure Bangkok Adrenaline, potrebbe addirittura strapparvi qualche sorriso a denti stretti; ma vi faccio presente che stanno iniziando le belle giornate, e io fra rivedere questo film e passare due ore al parco a fissare gli anatroccoli albini in calore sceglierei decisamente la seconda. E non è che io abbia tutto questo debole per gli anatroccoli albini in calore eh. Poi fate vobis.

28
Apr
10

Raging Phoenix: osteria numero mille, paraponziponzipò.

James says… Trama: in Thailandia (I suppose…) esiste un’organizzazione segreta specializzata nel rapire delle ragazze particolari con dei feromoni particolari per creare un farmaco particolare, tipo elisir di lunga vita. Come le trovano? Semplice, a fiuto. Tipo cani da tartufo. Pertanto la nostra eroina Deu (Jeeja Yanin) -che di eroina ha ben poco dato che a dire il vero è una sfigata con crisi esistenziali assortite e una simpatica sindrome da cane abbandonato-, ovviamente dotata del feromone del desiderio, viene usata come esca da una mappata di ex-fidanzati a cui sono sparite le ragazze per colpa di quest’organizzazione, con lo scopo di trovare i farabutti in questione molto abili nel far perdere le loro tracce e possibilmente recuperare anche le loro squinzie. La verità? Questo film non m’ha detto un cazzo. Allora, ragioniamo. Cosa funziona e cosa no: c’è una bella fotografia e dei begli scenari aperti che attraggono l’attenzione, ci sono degli attori potenzialmente carismatici che interpretano personaggi potenzialmente carismatici, ci sono delle buone musiche (sto parlando di quelle orchestrate, non di quegli aborti freestyle). Fin qui i pro. Cosa non funziona allora? La sceneggiatura che zoppica vistosamente, le coreografie non molto convincenti ausiliate per giunta dai cavi in stile ‘La foresta dei pugnali volanti‘ che conferiscono ad ogni scazzottata quel fastidioso senso di fittizio, per non parlare poi della parte finale del film che è un crescendo di ‘machecazzo’. Ah già, ma quello fa parte della sceneggiatura gambizzata. Insomma, i pregi sono proprio quelli che volendo potrebbero (e sottolineo potrebbero) anche passare in secondo piano in un film del genere, mentre i difetti al contrario sono quelli che andrebbero sviluppati con maggior cura. Il problema è che ‘sto film non sa bene se prendersi sul serio oppure no. Nella prima parte decisamente no. Esempi lampanti sono gli scagnozzi dei rapitori con alle gambe delle protesi alla Oscar Pistorius ma con delle lame montate sul retro, un’iniziazione ‘alcolica’ al Drunken Muay Thai che di serio ha ben poco, e dei personaggi che hanno un fare da cazzeggio quasi fastidioso. Nella seconda parte invece cambia tutto e si prende un po’ troppo sul serio, ammantandosi di un velo di poesia forzata e di cupezza che onestamente non c’azzecca niente e che non riesce neanche benissimo. La forte sensazione è che Raging Phoenix sia stato scritto un po’ di fretta, sulla scia del successo che la Yanin sta attualmente riscuotendo in Asia e non solo. In alcuni punti sembra proprio scritto con i piedi, fin troppo prolisso dove non c’era bisogno e fin troppo rapido quando si poteva/doveva approfondire. Insomma, una mezza ciofeca che non salva neanche la Yanin e i suoi compagni di merenda Kazoo, Roongtawan e i Leading Thai B-Boys, sicuramente grandi atleti ma che in questa sede fanno una figura un po’ barbina. Ma non per demerito loro ovviamente. Comunque dopo aver visto Jeeja Yanin in versione autistica effettivamente mancava la versione ubriaca. Ora manca solo il film con lei che fa muay thai con le emorroidi e poi siamo a posto.

27
Apr
10

“Chocolate”: Avete presente Rain Man? Ecco, dimenticatevelo.

James says… Che succede se sei una fanciulla poco raccomandabile, avvenente e ‘in carriera’, e fai le corna ad un boss della mala thailandese (Pongpat Wachirabunjong) con uno yakuza (Hiroshi Abe)? Semplice, perdi un dito del piede, ti ritrovi da sola a mantenere la figlia autistica frutto del fattaccio e il suo amico obeso di infanzia, e resti senza un soldo e costretta a letto da una malattia terminale. Alegher alegher. Altro bel filmetto questo Chocolate, sorpresa assolutamente positiva che ci regala una Jeeja Yanin nei panni di una ragazzina autistica che però incarna a pieno il detto ‘fare di necessità virtù’. Infatti, in barba al suo difetto genetico, per permettersi le cure per la mamma malata (Ammara Siripong) la nostra Zen (interpretata appunto dalla Yanin) impara a menadito le arti marziali ciondolando ore e ore davanti al televisore di casa che trasmette i film di Bruce Lee e Tony Jaa, e va a fare il culo a strisce agli ex-‘debitori’ della madre con un’ingenuità che la rende quasi adorabile se non si fa caso alle mascelle che fa saltare a suon di cazzotti. Una sorta di riabilitazione dell’antica arte del chiedere il pizzo insomma, portata avanti questa volta per nobili fini. Ma gli sceneggiatori giustamente non la mettono proprio così, facendo trovare davanti alla nostra Zen degli esercenti che non si fanno tanti scrupoli a malmenare la menomata ragazzina e il suo fedele trainer/amico grassoccio Moom (Taphon Phopwandee). E da qui in poi degli scontri si perde il conto. Senza dimenticare poi che il deretano del thailandese cornificato brucia ancora molto per l’onore perso, pertanto oltre agli esercenti, la ragazza e sua madre dovranno fare i conti anche col boss in questione (veramente da commozione la scena della lotta sui balconi dell’albergo stile livello di Donkey Kong) e con un gruppetto di sue fidate scagnozze che non s’è capito bene se siano trans o meno, ma in fondo non ci interessa. Anche qua le mazzate volano copiose, e la Yanin è di sicuro una delle più talentuose artiste marziali ora in circolazione, molto fedele alla filosofia di Tony Jaa ovvero dacci gengive che volano e siamo tutti contenti. Il plot è interessante e offre anche un po’ di profondità dato che l’argomento autismo e la storia tragica vengono trattati con una certa delicatezza fra una carriolata di mazzate e l’altra, e poi la Jeeja Yanin è davvero in grande spolvero sia come attrice che come picchiatrice, così come i suoi comprimari. Davvero una produzione degna di nota che vi saprà sicuramente spiazzare in positivo se vi siete affidati solo al trailer per farvi un’idea di cosa andrete a vedere. Bravo, bis.

PS. da notare i titoli di coda stile “Jackie Chan” con tutti gli incidenti sul set, altra prova delle mazzate che la Yanin prende sul serio. Poraccia.

26
Apr
10

“Merantau”: il ragazzo di campagna va in città, e mo so cazzi.

James says… Si dai, in fondo ce n’era bisogno. Dopo tutti questi anni in cui i vari Jackie Chan, Jet Li, Sammo Hung e compagnia ci hanno ammorbato i maroni con le loro coreografie artificiose e con il loro solito ruolo da eroe che “mo te rompe er culo e manco te ne accorgi”, era normale che arrivasse un Tony Jaa qualunque a sovvertire un po’ l’artificiosità di questi combattimenti su cellulosa con qualche sana ginocchiata sulle gengive, ed era ancora più normale che la moda prendesse piede e che uscissero fuori i vari adepti. E così dopo l’affascinante JeeJa Yanin ora tocca agli Indonesiani dimostrare che le palle fumano anche a loro, quindi, ladies and gentlemen, ecco a voi il principino del silat Iko Uwais. Pare che nell’hinterland thailandese, come da tradizione, ad un certo punto della vita le madri caccino di casa i loro figli per il Merantau, che si tratta in parole povere di mandarli in città e toglierseli dalle balle per un po’ con la scusa di farli crescere. E tutto ciò è toccato ovviamente anche al nostro Yuda (Iko Uwais), così come a suo fratello prima di lui; solo che il fratello è tornato a casa senza far troppi casini, lui decisamente no, dato che si imbatte praticamente da subito nel piccolo ladruncolo Adit (Yusuf Aulia) e in sua sorella lap-dancer-per-necessità Astrid (Sisca Jessica), e correlativamente in un paio di personaggi poco simpatici che trafficano donzelle asiatiche oltreoceano per scopi altrettanto poco simpatici. Si, la trama non brilla per originalità, a parte la trovata del Merantau, ma nonostante ciò il film risulta molto godibile. Che ve devo dì? Sicuramente non è il classico kung-fu movie, dato che ha una sceneggiatura piuttosto solida, dato che i personaggi sono abbastanza credibili e viene anche facile affezzionarcisi (sia ai principali che a qualche stupido nemico-scagnozzo che susciterà in voi un irresistibile mix di simpatia e pena), e dato che le coreografie di Uwais e dei suoi antagonisti non sono mai troppo ‘coreografate’, il che toglie al nostro eroe quel fastidioso alone di immortalità che spesso e volentieri si trova nei film della concorrenza. E poi c’è anche un’apprezzabile quanto insolita vena poetica e un finale non del tutto scontato. Insomma, è un filmetto con la sua profondità, che sicuramente vale la pena di essere visto e che supera in quanto a qualità tanti altri concorrenti ben più ‘blasonati’. E bravo Iko, scoperta molto positiva. Facce vedè altre gengive che saltano, e fallo con stile.

08
Apr
10

“Life Starts Now”. Perché un diamante è per sempre.

Tom says… A volte dalle pieghe di un sovraccarico lettore mp3 riemergono gemme. Non i soliti diamonds in the rust, stiamo parlando di vere e proprie gemme. Grosse come noci di cocco. Telefonare DeBeers per preventivo. Come l’ultimo Three Days Grace, per dire. E non è neanche un disco nuovo. Manco i 3DG sono un gruppo nuovo, se proprio. ‘Life Starts Now’ è un prodotto dell’anno scorso e i 3DG a curricolo con questo ci piazzano la terna. Però come al solito l’american fm rock, un po’ roghenrol, un po’ post-grunge un po’ arrampica classifiche da noi stenta, Creed e Nickelback a parte. Eggià, perché i nostri amichevoli Three Days Grace di quartiere negli States e nel loro natìo Canada sono già un nome caldino caldino, frequentemente in tour e promosso come si deve. Televendiamoli anche da noi, no? Dunque, musicalmente li abbiamo già inquadrati, è inutile. Il problema se mai è che un paio di etichette non rendono grande giustizia ad un disco a dir poco epocale come questo. Certo, la melodia di ‘Lost In You’ gira la scena modern melodic rock da un tot, certo gli arrangiamenti furbeschi dei frangenti più duri (la spaccona ‘Bitter Taste’ o ‘The Good Life’) sono poca cosa se visti in prospettiva, certo le prestazioni individuali non sono particolarmente geniali, ma la realtà complessiva di ‘Life Starts Now’ è decisamente più ampia. E’ ampia grosso modo quanto la mia stempiatura. E dal barbiere spendo sempre meno, io. ‘Life Starts Now’ è un concentrato pauroso di singoli feroci, di orgasmi da tre minuti netti, tipo per dire il primo singolo ‘Break’ che strutturalmente rasenta la perfezione. ‘Life Starts Now’ è un greatest hits di puro rock da combattimento, bullo a sufficienza da diventare il re della festa ma anche profondo quanto serve da abbassarsi le luci, silenziare i watt e rivestirsi di orchestrale (giusto una: ‘Last To Know’). In poche parole il nuovo parto dei Three Days Grace è semplicemente enorme. Un diamante è per sempre. Come dice DeBeers.

www.myspace.com/threedaysgrace







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